Quali sono le origini dell'Eucaristia ?

pane azzimo

Pane Eucaristico azzimo

Le radici Ebraiche dell'Eucarestia

Cercheremo di riflettere sulle radici ebraiche dell’Eucarestia, e di capire che tipo di rapporto ci sia fra Pasqua ebraica e Pasqua cristiana. Ripartendo da come ancora oggi gli ebrei celebrano la Pasqua ebraica, tenteremo di capire perché, come ci insegna il magistero post-conciliare, è fondamentale, per un cristiano, ripartire dalla chiave di lettura ebraica per comprendere adeguatamente il gesto di Gesù durante l’ultima Cena.

A questo proposito vorrei aggiungere che proprio il magistero cattolico, negli anni 1975-85 in particolare, ha precisato il n. 4 di Nostra aetate, dove il Concilio ha chiarito in maniera molto precisa i rapporti fra la Chiesa e il popolo ebraico, legati da un vincolo che la Chiesa non ha con altre religioni. In questi documenti, specialmente in quello del 1985 – conosciuto anche con il nome di Sussidi – si precisa che il fatto che l’ebraismo continui a celebrare la sua Pasqua di fronte ai cristiani, è un bene per il cristianesimo. Questa sera cercheremo di scoprire proprio questo.

Io, tra l’altro, vengo da studi accademici di giudaistica, ma appartengo al popolo ebraico attraverso mia madre e conosco la tradizione cristiana attraverso mio padre cattolico, quindi quanto vi dirò è frutto anche di quello che continuo a celebrare con mio marito e mia figlia con la comunità ebraica di Milano in particolare, e che vivo, nello stesso tempo, in relazione anche alla celebrazione cattolica dell’Eucarestia che caratterizza la fede di mio marito. Io ho sposato un cattolico, quindi vengo da una tradizione di matrimoni misti che in qualche modo continuo.

La prima osservazione dalla quale è inevitabile partire è ciò che è accaduto durante l’ultima Cena di Gesù con i suoi. Mi rifaccio in particolare ai vangeli sinottici di Matteo, Marco e Luca. Menzioneremo anche Giovanni ma, come sapete, sono i sinottici che descrivono l’ultima Cena, mentre Giovanni descrive la lavanda dei piedi.

Ora, proprio in riferimento alla testimonianza dei tre evangelisti sinottici, probabilmente sapete che la critica storica e gli studi biblici hanno delle posizioni diverse e hanno soprattutto delle domande aperte. Non è l’obiettivo di questa sera entrare in merito alla discussione esegetica, però è bene sapere che gli studiosi non sono tutti concordi nel leggere i testi. Per esempio, ci si domanda se sia stata veramente una cena pasquale ebraica, o qualcos’altro. Gesù ha effettivamente celebrato il Séder? Questo termine significa ordine (in questo caso ‘ordine delle celebrazioni’) e simbolicamente esprime la cena rituale ebraica. C’è anche il Séder della preghiera quotidiana, però quando un ebreo dice che celebra il Séder indica la cena pasquale ebraica.

Certamente Gesù l’ha celebrata nell’arco della sua vita, perché i vangeli ci testimoniano la sua profonda osservanza come uomo ebreo. La domanda è: La sua ultima Cena è stata un Séder pasquale ebraico, oppure no? C’erano, ad esempio, tutti gli elementi della festa? Adesso li vedremo e cercheremo di capire se nei vangeli se ne fa menzione.

E soprattutto, come interpretare i suoi gesti e le sue parole? Ammesso che l’ultima Cena di Gesù sia stata effettivamente una cena pasquale ebraica, c’è però il particolare che Gesù dice: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue: fate questo in memoria di me». Allora, come interpretare questo riferire tutto a sé, che non fa parte della ritualità ebraica?

Se da una parte la discussione esegetica è apertissima, dall’altra però i vangeli sinottici ci presentano comunque questo gesto di Gesù nell’orizzonte pasquale giudaico, mettendo prima l’indicazione: «Erano i giorni degli azzimi». Si dice che è Gesù a mandare alla ricerca di un luogo per celebrare la Pasqua, oppure che sono i discepoli a chiederlo al Maestro, comunque si specifica che ‘erano i giorni degli azzimi’. E parlare di ‘azzimi’, come di ‘Séder’, è parlare di Pasqua ebraica.

Allora, su quale considerazione vogliamo fondare questa riflessione? Sulla presa di coscienza che, qualsiasi sia stata la Cena che Gesù ha celebrato, la chiesa delle origini ci ha consegnato questo gesto di Gesù, questo invito a far memoria della sua Pasqua nell’orizzonte della Pasqua ebraica. Come a dire: quella deve essere la vostra chiave di lettura, qualunque cosa sia successa quella sera.

Inoltre dobbiamo precisare un’altra dimensione importante. Nella testimonianza di S. Paolo – e in particolare in 1Corinzi 11,23ss –, l’Apostolo ricorda che Gesù stesso ha invitato a ripetere nel tempo i gesti di quella cena, indicandoli come ‘memoriale’. Ora, questa dinamica, che è tipicamente biblica – poiché è quella che è stata indicata da Dio stesso agli ebrei per mantenere reale nel tempo l’esperienza dell’uscita dall’Egitto – è la dinamica con cui anche Gesù affida il gesto dell’Eucarestia alla chiesa delle origini. E coloro che lo ascoltavano e lo seguivano in quel momento erano tutti ebrei, costituivano una piccola comunità di giudeo-cristiani.

Evidentemente questo era il linguaggio con cui Gesù voleva dire loro: “Con la stessa dinamica con cui ogni anno celebrate la Pasqua ebraica, adesso celebrate la mia memoria”. E lo fa utilizzando un linguaggio tipicamente biblico e tipicamente giudaico. Quindi possiamo dire che l’invito a far memoria di quell’evento da parte di Gesù nei confronti di quella che sarà la Chiesa, avviene non solo secondo la tradizione biblica, ma proprio secondo quella tradizione su cui si radica la Pasqua ebraica. Se volete individuare nelle Scritture i passi dove Dio indica questo al suo popolo mentre lo sta liberando dall’Egitto, guardate in particolare Esodo 12,14. Viene ripreso anche in Esodo 13, ma in Es 12 si dice in maniera molto lapidaria: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne».

Allora andiamo a vedere nella coscienza ebraica, dai tempi biblici ad oggi, che cosa significa celebrare un memoriale. In ebraico il termine è Zikkaron, dalla radice zkr (ricordare), che nella Bibbia è sempre un verbo di fede. La fede ricorda ciò che Dio ha fatto per compiere la salvezza nella storia; chi non ha fede dimentica. Biblicamente parlando, il ‘non ricordare’ i gesti di Dio nella storia costituisce una sorta di prostituzione, perché porta all’idolatria.

Quindi: il ricordare è un verbo di fede, e il memoriale si radica su questo. Ma il memoriale tipicamente biblico implica due elementi fondamentali: il fare qualcosa e il ricordare qualcosa. Dio dice al popolo d’Israele che dovrà fare memoria di quell’evento non solo raccontando, ma ponendo anche dei gesti significativi, particolari. Allora già qui troviamo un interessante parallelismo con le indicazioni di Gesù, che dice: “Fate questo in memoria”. La struttura è identica.

Non solo. Questo ‘fare’ e ‘ricordare’ del memoriale biblico, non serve semplicemente per mantenere vivo un ricordo, ma serve per rivivere. Chi compie il memoriale secondo le indicazioni che la propria tradizione religiosa ha codificato – gli ebrei da una parte, i cristiani dall’altra – compie un gesto che rende attuale la salvezza nel tempo. Non è un ricordare, ma un rivivere.

Un rivivere come? Dal punto di vista ebraico diventando contemporanei all’evento di salvezza celebrato. Ma con questa formula si può tranquillamente spiegare anche il senso della presenza reale nell’Eucarestia, cioè si diventa contemporanei, dal punto di vista cristiano, alla morte e alla risurrezione di Gesù: si muore e si risorge con lui. Quindi anche in questo senso cominciamo a capire perché Gesù usi questo linguaggio, che permette di ricordare nella logica di un rivivere.

La liturgia della Pasqua ebraica esprime questo in uno dei passaggi più importanti del rito. Ad un certo punto, quando si è già abbastanza avanti nella cena rituale, si invitano tutti ad un momento particolare di attenzione per ripetere insieme queste parole: «In ogni generazione ciascuno ha il dovere di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto». E il rito prosegue dicendo: «Perché in quel momento Dio non liberò soltanto Mosè e chi era con lui, ma liberò anche noi». Quindi ciascuno deve di nuovo uscire dall’Egitto, così come è uscito Mosè con il popolo d’Israele a quell’epoca. Quindi, in altri termini, è un ricordare per ‘essere’ liberi, non un ‘ricordare la libertà’.

Quest’anno le due Pasque, l’ebraica e la cristiana, avranno tre settimane di distanza (normalmente questo non succede; succede ogni tre o quattro anni). Quest’anno anche per l’anno religioso ebraico c’è l’anno bisestile. L’anno religioso ebraico è computato sui mesi lunari, che vanno da una luna nuova ad un’altra luna nuova. Ora, i mesi lunari sono più corti dei mesi solari, quindi i dodici mesi lunari non corrispondono ai dodici mesi solari. Così, per evitare quello che accade ad esempio nell’Islam – in cui il Ramadan può capitare in qualsiasi momento dell’anno – , per mantenere la Pasqua in qualche modo legata all’equinozio di primavera, il 14 di Nissan, come è indicato nella Bibbia, la tradizione ebraica ha fissato la regola per cui, con un calcolo molto complicato, ogni tre/quattro anni circa, l’ebraismo aggiunge un mese. Quindi noi entreremo tra poco nel mese di Adar e, finito il primo mese di Adar, nel faremo un secondo.

Perciò mentre la Pasqua cristiana sarà il 23 marzo, quella ebraica comincerà nella notte tra il 17 e il 18 aprile; invece l’anno scorso è caduta nella Settimana Santa cristiana, e così avverrà anche l’anno prossimo. Il fatto che quest’anno sia distante è solo per una questione di aggiustaggio di calendario.

Proviamo adesso ad entrare virtualmente nelle case degli ebrei e vedere che cosa accadrà tra non molto. È quanto tutti gli ebrei del mondo faranno poco dopo la Pasqua cristiana.

Tenete innanzitutto presente questo orizzonte generale: si tratta di una liturgia domestica. Tutte le feste ebraiche, sabato incluso (tranne il capodanno religioso e il Kippur, che hanno il loro momento fondamentale in sinagoga), pur avendo un momento in sinagoga e un momento in famiglia, assolvono il precetto festivo con la liturgia domestica. In altri termini, un ebreo che a Pasqua va in sinagoga ma non celebra la liturgia familiare, non ha fatto Pasqua. Questo vale per il Sabato, per la Pentecoste (che ricorda il dono della rivelazione), per tutte le feste dell’anno. Tra poco celebreremo Purim, che ricorda il coraggio della regina Ester che rischiò la vita per salvare il popolo oppresso dal re Assuero; ebbene, leggeremo il libro di Ester in Sinagoga, ma la liturgia della festa di Purim la celebreremo a casa.

Qual è la ragione? La ragione è che in questo modo tutta la famiglia è coinvolta. Il momento sinagogale – come il momento al tempio quando c’era – serve a vivere il senso di appartenenza alla comunità, ma può essere che a questo momento comunitario non possa partecipare un anziano, oppure una mamma con un bambino piccolo, o un ammalato. Non è un momento liturgico che può inglobare tutti, mentre la liturgia familiare può accogliere un malato, un bambino piccolo, un anziano che ha difficoltà a muoversi. Perciò la dimensione familiare è considerata lo spazio liturgico per eccellenza; non esclude quella comunitaria, ma viene prima.

Anche quando c’era il tempio, l’agnello sacrificale di Pasqua – che è un segno di comunione – veniva offerto al tempio, ma consumato in famiglia. Questa è la dimensione con cui è nata anche la liturgia cristiana, che ha preso poi un’altra via per ragioni storiche.

Vi mostrerò delle diapositive che illustrano scene di casa e non di sinagoga, perché questo è il momento più importante della liturgia. Sono immagini di come può apparire la Pasqua oggi.

(N.B.: nello sbobinare mi affido alla fantasia di chi legge la dispensa per visualizzare le diapositive…)

Nella prima ci troviamo in un contesto tipicamente occidentale. I partecipanti sono seduti attorno alla tavola, e gli uomini hanno il capo coperto perché è un gesto sacro. Anche chi non porta sempre il capo coperto, durante la liturgia domestica lo fa.

In quest’altra, come vedete, siamo già in una famiglia più allargata, con alcuni amici, ma siamo sempre in una casa; questo vuol dire che la ‘famiglia’ non è da intendersi come nucleo ‘genitori-figli’, ma può comprendere i nonni, i cugini, gli amici, qualcuno che è venuto da lontano e ha bisogno di ospitalità. Quindi la famiglia in senso aperto, allargato.

La famiglia può anche vivere in Oriente. In questa foto vedete degli ebrei che vengono dai paesi orientali mediterranei. Io vengo da una famiglia di questo tipo: mia mamma è vissuta in Egitto, al Cairo, e proveniamo da un gruppo di ebrei spagnoli, passati per l’Italia e poi stabilitisi appunto al Cairo intorno agli anni ’20 dello scorso secolo. Io ho ricordi di famiglia, soprattutto dei nonni, più vicini a questa immagine. Anche se io sono nata e vissuta in Italia, e ho la cittadinanza italiana, le tradizioni ebraiche della mia famiglia sono molto simili a queste.

Sempre rimanendo in Oriente, vedete degli ebrei di un Oriente un po’ più estremo: mangiano su cuscini, seduti per terra, ma non per imitare gli ebrei in Egitto, ma perché per loro stare a tavola nel giorno di festa è questo.

Il rito è esattamente uguale, che si celebri a Milano, a Tel Aviv o a New York, ma il contesto è segno dell’inculturazione. In America (e ormai lo si sta facendo anche in Italia) succede che più famiglie decidono di compiere questo rito insieme, o in un locale della comunità, o scegliendo anche un locale laico. Ci si trova insieme perché quelle famiglie che per qualche ragione si sono magari allontanate dalla tradizione e non sanno celebrare tutto, siano aiutate e nuovamente coinvolte da quelle che l’hanno mantenuta di più. Anche a Milano, da un paio d’anni, c’è la possibilità, per chi lo desidera, di utilizzare alcune strutture delle varie sinagoghe milanesi per ritrovarsi e compiere questo gesto. Però non è la sinagoga, ma solo un locale utilizzato semplicemente perché in casa non ci si sta.

Tra l’altro, la sinagoga non è comunque un luogo sacro. Contiene il rotolo della Scrittura, che è un oggetto sacro, ma di per sé, secondo il termine ebraico, è un luogo di riunione (Knesset, come il Parlamento ebraico), il che vuol dire anche ritrovarsi per pregare, per studiare, per fare una festa di matrimonio o di un compleanno. È la casa della comunità, ma non deve essere accostata alla basilica cristiana o alla moschea musulmana. L’unico luogo sacro, nell’ebraismo, è il tempio e ciò che di esso resta, cioè il muro occidentale; tutto il resto diventa luogo sacro nel momento in cui si pone un gesto sacro.

La liturgia pasquale, che si svolge in un orizzonte domestico, coinvolge tutta la famiglia fin dai preparativi. L’idea è che non si può celebrare una festa, una liturgia, se ciascuno non contribuisce a costruirla: non si fa mai da spettatori, ma bisogna essere protagonisti della liturgia che si esprime. Perciò ogni famiglia possiede dei sussidi ["Guide alle regole di Pésach (Pasqua)"], in cui ci sono tutte le indicazioni, da come si prepara la casa, a come si apparecchia la tavola per il rito, a come lo si conduce: tutto quello che può servire ad una famiglia per celebrare la festa secondo la tradizione. C’è un libro per la Pasqua, uno per il Sabato, e via di seguito.

Uno dei gesti più importanti con cui ci si prepara alla celebrazione di questo momento, che è la festa più importante dell’anno – e questo vale anche per i cristiani – è lo sgombero dei cibi lievitati. Abbiamo visto che anche i discepoli chiedono a Gesù dove celebrare la festa degli ‘azzimi’. Infatti un altro modo di chiamare la Pasqua è ‘festa degli azzimi’. Il pane azzimo è legato al fatto che, come dice l’Esodo, gli ebrei non hanno avuto tempo di farlo lievitare a causa della partenza frettolosa; ma accanto a questa, che è la ragione principale, la tradizione ha aggiunto una serie di significati interessanti. Uno di questi è che il pane azzimo è fatto solo con farina ‘nuova’, a differenza del pane lievitato che, secondo le tecniche antiche (ancora in uso presso i bravi panettieri), prevede l’uso di farina nuova e vecchia, perché senza i lieviti chimici (come nelle attuali tecniche biologiche) si prende della farina, la si impasta, la si fa fermentare (invecchiare) e con questa farina si fa lievitare la farina nuova. Perciò il pane lievitato contiene il vecchio e il nuovo, mentre il pane azzimo ha solo il nuovo.

Allora si dice che il fatto che gli ebrei, in quel momento, abbiano mangiato pane azzimo, cioè fatto solo con farina nuova, ha sottolineato la novità dell’azione liberatrice di Dio, che libera l’uomo anche attraverso il cibo. Ogni festa ebraica tiene in grossa considerazione il ritrovarsi a tavola, perché è in questo modo che si vive l’esperienza conviviale completa, del cibo del corpo e di quello dello spirito.

Un altro significato interessante è il fatto che in ebraico il lievito si chiama hametz, che per assonanza assomiglia alla parola hamas, che significa ‘violenza’ (termine tristemente noto per la violenza in Medio Oriente). Ora, si dice che levando il lievito si leva anche la violenza, come segno del prepararsi ad un’azione rigeneratrice che è l’effetto della libertà vissuta.

Quindi lo sgomberare la casa dai cibi lievitati – che forse qualcuno dice aver dato origine alle pulizie di primavera – simbolicamente sta ad indicare che ci si prepara anche esteriormente ad una rigenerazione interiore. Questo sgombero, che occupa soprattutto le donne e le madri di famiglia per più giorni prima di Pasqua, culmina in una sorta di caccia al tesoro preparata dai genitori per i bambini appena prima della festa, dove volutamente si lascia qualche pezzetto di pane o di biscotto o di sostanza lievitata per la casa e, con un lume acceso lo si cerca. Lo si fa apposta, perché i bambini lo trovino e lo si elimini insieme, per dare l’idea del prepararsi all’evento

C’è già un coinvolgimento di tutta la famiglia nei preparativi del momento fondamentale.

Accanto a questo primo gesto, c’è la preparazione insieme della tavola per la festa, che deve essere una tavola dove si mangia, ma anche si prega; perciò sono presenti i piatti e i bicchieri, ma anche i testi liturgici che poi tutta la famiglia utilizzerà.

Vorrei farvi notare che anche Gesù ha compiuto le cose più importanti a tavola e non so se conoscete il volume: “Un Rabbi che amava i banchetti” di Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, pubblicato da Marietti con le illustrazione di Lele Luzzati. In genere lo si regala ai ragazzi in occasione della Prima Comunione, ma a mio avviso è un testo ottimo anche per gli adulti. Presenta i vangeli attraverso lo stare a tavola di Gesù, dalle nozze di Cana all’Eucarestia e dimostra come tutti i gesti più importanti di Gesù siano stati compiuti a tavola, esattamente come la scansione delle feste ebraiche.

Al centro della tavola è posto un piatto con dei cibi particolari. Ve li elenco in ordine ‘gerarchico’.

Abbiamo già visto che le grandi protagoniste della Pasqua ebraica sono le azzime; oggi sono quadrate, anticamente erano fatte a mano in forma rotonda. Immaginatevi comunque dei grandi crackers senza sale e senza lievito. Le azzime sono legate e sigillate: è la garanzia rabbinica che sono fatte solo di farina nuova e non dell’anno prima.

Sulla tavola ce ne saranno tante, perché per sette giorni ogni cibo lievitato sarà bandito, per cui fungeranno da pane, ma quelle strettamente rituali sono tre, perché il popolo ebraico, all’epoca di Gerusalemme, era fondamentalmente suddiviso in tre parti: i sacerdoti, i leviti e il popolo. Ora, la tradizione rabbinica insegna che queste tre azzime devono essere sovrapposte e rappresentano questa tripartizione a rovescio: i sacerdoti, che come scala gerarchica al tempio erano i primi, sono sotto, appoggiati al piatto; a metà stanno i leviti e in altro sta il popolo, perché l’azione liberatrice di Dio rimette in discussione qualsiasi forma di gerarchia. Perciò chi è più in alto, nella scala sociale, deve imparare a servire, deve ricordarsi che la sua è una posizione di servizio.

Nel vangelo di Giovanni non si narra la Cena, ma la lavanda dei piedi, dove Gesù esprime questa dimensione di servizio. E allora, non è che forse Giovanni – che non ci racconta dell’ultima Cena – vuole però consegnarci, come chiave di lettura cristiana, la grossa dimensione di servizio? Oggi si sta cercando di rileggere Giovanni in questa direzione. Giovanni non parla della Cena, ma di una dimensione fondamentale della Pasqua ebraica, quella del servizio, con cui Gesù si è congedato compiendo l’ultimo gesto verso i suoi. Quindi non è narrata la Cena perché è narrata la dinamica: farina nuova nel segno del servizio.

Tornando ai cibi rituali, non costituiscono la cena vera e propria; dopo la celebrazione si consuma un pasto abbondante e vario. Ma è importante sapere che quei cibi, che hanno tutti un legame con l’esperienza dell’esodo, possono variare di zona in zona perché ogni comunità ebraica deve poter celebrare questo rito senza trovare difficoltà nel reperire ciò che serve.

I cibi devono rappresentare innanzitutto l’amarezza della schiavitù, perciò sul piatto troviamo le erbe amare e il charoset. Per le erbe amare, in Italia si usano molto la lattuga e il sedano, che di amaro hanno poco ma sono facilmente reperibili; gli ebrei dell’est europeo usano molto delle radici amare, ma il significato è esattamente uguale. Il charoset è una sorta di salsa dolce che deve ricordare che l’amarezza della schiavitù è descritta nell’Esodo come particolarmente legata all’obbligo di fabbricazione di mattoni con argilla e paglia (quest’ultima, ad un certo punto, verrà negata). Si è cercato di riprodurre tutto questo con un cibo che piace ai bambini e che in qualche modo ricordi la storia. Con la frutta frullata si immagina l’argilla e con le noccioline frantumate e scaglie di cocco si fa la paglia; poi vengono aggiunte tutte le cose che la fantasia femminile trova: cannella, miele, ecc. Non c’è una ricetta rituale o, meglio, ci sono tante ricette legate alle varie latitudini. Ci sono libri di cucina ebraica che ne riportano qualcuna. Le migliori però sono patrimonio familiare: ogni famiglia ha la sua, ogni donna ebrea ha la sua e la difende gelosamente. Io vengo da famiglie che usano molto i datteri, poiché hanno vissuto in Egitto, e ho dei parenti che sono rimasti in Italia (in Piemonte) e che usano le castagne…

Questo serve molto a coinvolgere i bambini, che forse fanno fatica a mangiare le erbe amare, ma gradiscono il cibo dolce.

Dato che spesso le erbe amare non sono poi tanto amare, si usa intingerle o in succo di limone o in aceto o in acqua e sale. Si predilige l’acqua e sale perché è la composizione delle lacrime.

C’è poi qualcosa che oggi non si mangia più. Infatti sul piatto che vi presento in diapositiva c’è un osso che dovrebbe essere di agnello o di capretto; oggi va bene l’osso di un qualsiasi animale permesso dall’alimentazione ebraica. Finisce spesso per essere un osso di pollo, che è facilmente reperibile da tutti. Questo è ciò che differenzia la Pasqua celebrata oggi rispetto ai tempi di Gesù. Allora la Pasqua prevedeva l’agnello come sacrificio di comunione portato al tempio e riportato nelle famiglie per la consumazione insieme. Da quando non c’è più il tempio questo non è più possibile. Il che significa che se l’ultima Cena di Gesù con i suoi è stata una cena ebraica, l’agnello c’era. Ma dall’anno 70 dell’era cristiana in poi, con la distruzione del tempio da parte dei romani, gli ebrei hanno dovuto celebrare la Pasqua senza. Del resto facevano così già gli ebrei che vivevano nelle zone della diaspora (ad esempio a Roma o ad Alessandria), anche quando il tempio c’era ancora, perché la distanza era enorme.

Era comunque un sacrificio di comunione, e non di espiazione. L’ebreo, cioè, vive questo momento nel segno della comunione, non dell’espiazione. Nelle feste ebraiche il sacrificio di espiazione è legato a Kyppur, non a Pasqua, quindi il rileggere poi la Pasqua di Gesù in questa dimensione fa parte del cristianesimo.

C’è la memoria di questo sacrificio di comunione che non si può più effettuare ma, proprio perché manca qualcosa, è subentrato nella Pasqua ebraica un altro elemento che potremmo definire come un segno ‘fra lutto e speranza’ (lutto per la mancanza del tempio, speranza nei tempi messianici), ed è l’uovo sodo. Perché l’uovo sodo? Perché è un alimento che gli ebrei da sempre offrono alle persone in lutto. Alla fine di un funerale, a chi ha perso un congiunto si offrono uova sode perché sono simbolo di vita e perché sono tondeggianti, senza inizio e senza fine, e rimandano quindi all’idea della risurrezione. Esprimono molto bene la realtà di un popolo che vive il dolore dell’unico luogo sacro che non c’è più, ma aspetta i tempi della redenzione.

Non a caso nella Pasqua ebraica c’è un chiaro segno di questi tempi ultimi messianici, costituiti da una coppa di vino che non si beve, in quanto è segno di un’attesa di compimento. Nell’ebraismo, a differenza di quello che molti pensano, non si aspetta il Messia, ma i tempi messianici. C’è la fede nell’attesa di una storia nella quale si compirà la salvezza, ma le modalità in cui ciò avverrà sono oggetto di discussione. C’è chi parla di Messia, c’è chi dice che questo avverrà attraverso un intervento di Dio che non avrà bisogno di mediazioni messianiche, e anche chi parla di Messia, ne parla in modi diversi.

Ora, tra le tante attese, ce n’è una per la quale si dice che il tutto potrebbe avere inizio una notte di Pasqua con un Messia accompagnato nella storia dal profeta Elia che, come dice la Scrittura, non è morto ma è stato rapito in cielo su un carro di fuoco, in attesa di annunciare i tempi messianici. Quel calice di vino è per lui e, ad un certo momento del rito, si apre una porta o una finestra (c’è chi mette in tavola un piatto in più), soprattutto per spiegare ai più piccoli che si è in attesa di qualcuno: potrebbe arrivare Elia e bisogna essere pronti.

Ci sono però altri calici di vino che accompagnano tutto il rito. Si tratta di quattro coppe (ma può essere una sola riempita per quattro volte) che indicano che in questa cena rituale ci sono quattro momenti in cui si beve (se non una coppa, almeno un sorso di vino) tutti insieme ricordando qualcosa. Che cosa si ricorda? In Esodo 6 (a differenza di Esodo 3, più antico), dove c’è il secondo racconto di vocazione di Mosè, compaiono quattro verbi con i quali Dio manifesta a Mosè la sua decisione di salvare il popolo e di liberarlo dalla schiavitù: “vi farò uscire, vi libererò, vi riscatterò e vi prenderò dalla situazione di schiavitù per portarvi alla situazione di libertà”. In memoria di ogni verbo c’è una coppa di vino corrispondente. Ma questo numero, dal punto di vista ebraico, è fortemente evocativo, perché quattro sono le madri d’Israele, le mogli dei patriarchi (quattro perché Giacobbe ne ha avute due, Lea e Rachele).

Tra l’altro tutto il rito di Pasqua non menziona mai Mosè, proprio perché nessuno si faccia l’idea che è stato Mosè a liberare, ma Dio: Mosè è bandito da questo rito per evitare l’idolatria. Però che cosa si ricorda? Il patto di Dio con Abramo, i patriarchi e le madri d’Israele.

Non solo. Il numero quattro, dal punto di vista biblico, esprime il ritmo dei rapporti tra Dio e il popolo, nel senso che c’è una fedeltà di Dio alla quale spesso corrisponde il peccato, l’infedeltà del popolo (ecco il primo momento); questo meriterebbe un castigo (secondo momento), ma se c’è la conversione (terzo momento), scatta anche la dinamica del perdono (quarto momento). Ecco allora che peccato, castigo, pentimento e perdono sono i ritmi con i quali si snoda la storia della salvezza nel rapporto tra Dio ed Israele. Quindi quelle quattro coppe di vino sono molto evocative.

Ma come tutto questo – cibi rituali, coppe di vino insieme al racconto – prende forma? La prende nell’orizzonte dell’universalismo. Proprio l’inizio del rito, prima ancora della festa e delle domande ufficiali del più piccolo, propone un invito di questo tipo: «Chi ha fame venga e mangi, chi ha bisogno venga e faccia Pasqua» che è rivolto a tutti, ebrei e non ebrei. E mentre tutto il rito è in ebraico, questo invito è pronunciato in aramaico, lingua che quando il rito si è fissato corrispondeva un po’ all’inglese di oggi: era la lingua universale e anche Gesù parlava in aramaico, perché era quella la lingua del Medio Oriente. Questo perché c’è la profonda convinzione che ogni festa di libertà va condivisa: la libertà è un dono che Dio affida ad un popolo perché lo condivida con tutti.

Questo è il motivo per cui non è bene che i cristiani celebrino la Pasqua ebraica, perché non hanno le condizioni per farlo, ma se vogliono possono essere invitati dagli ebrei a condividere questo momento, proprio perché il popolo ebraico celebra non solo per sé ma per tutti, sapendo di rappresentare tutta l’umanità davanti a Dio con questo gesto. Per questo essere aperto ‘a tutti’, il rito include soprattutto i bambini, poiché un rito senza bambini è il rito di una comunità che non ha futuro. I bambini hanno tutta una serie di rituali dedicati a loro perché devono sentirsi coinvolti quanto gli adulti.

Il momento in cui la festa viene consacrata consiste nell’accensione delle candele e poi nella benedizione del Nome di Dio sul vino. Ebbene, l’accessione delle candele, che segna il passaggio dal tempo profano al tempo della festa, momento che avviene in tutte le feste ebraiche, è un gesto che può compiere solo la donna, perché solo la donna può far passare il tempo dalla profanità alla sacralità in quanto ha in sé, nel suo corpo, i segni della vita. Quindi la donna è non solo la garante della liturgia domestica, ma è anche la condizione perché la liturgia domestica ci sia. Ecco perché in un matrimonio misto, quando ad essere ebreo è il padre e non la madre, si creano problemi. Infatti se manca la donna ebrea non si può celebrare, a meno che quella famiglia non si unisca ad altri.

Allora qui si pone un’altra domanda: se quella di Gesù con i suoi discepoli è stata una cena pasquale, chi ha acceso le candele? Forse Maria. Non certo lui perché, osservante com’era, non avrebbe mai compiuto un gesto contro la tradizione.

La donna poi deve avere il capo coperto. Un altro elemento tradizionale è che la donna sposata – che tra l’altro è quella pienamente autorizzata a compiere il gesto dell’accensione (in mancanza può essere compiuto da una nubile, ma prima viene la sposata, anche se vedova) –, proprio per indicare il suo stato matrimoniale, nei momenti di ritualità si copre il capo come l’uomo.

Dopo che la festa è stata consacrata con le candele accese, vengono le domande dei più piccoli, che sono legate alla presenza dei cibi rituali sulla tavola, perché questa sera è diversa dalle altre sere.

Alle domande del più piccolo segue la risposta dei genitori e di tutti gli adulti presenti, che è il racconto dell’esodo commentato dai maestri. Quindi non è la semplice lettura dell’esodo, ma c’è il commento dei maestri. Il tutto accompagnato dall’assunzione dei cibi rituali. All’interno di questo racconto ci sono dei momenti di vero e proprio gioco, per coinvolgere i più piccoli, giochi che fanno parte comunque del rito. Ad esempio se ci sono presenti dei piccoli, quando si arriva al momento delle piaghe d’Egitto, queste si illustrano vedere facendo gocciolare del vino rosso su un piatto, perché i bambini abbiano l’idea della goccia di sangue. Così ci sono anche delle interessanti discussioni talmudiche su quanti flagelli uscivano dalla mano di Dio, che hanno la funzione di tenere viva l’attenzione, in maniera che nessun bambino abbia l’impressione di stare lì ad assistere ad un rito degli adulti.

La dinamica di questo racconto-memoriale, quindi, vuole un po’ rispondere all’esortazione con cui Dio insegna, sempre nell’esodo, come dovrà essere celebrato questo momento: «Quando tuo figlio ti chiederà… allora gli dirai… Faglielo rivivere come l’esigenza di una sua domanda che ti invita a dargli una risposta» (cfr. Es 13,8). Ma proprio perché i figli non sono tutti uguali, la tradizione, in questo rituale pasquale, insegna che possono appartenere a quattro categorie diverse, che altro non sono che quattro modi di porsi nella tradizione e che sono trasversali nelle religioni. C’è l’assennato, quello che vuole imparare tutto ciò che si deve fare per essere capace, quando sarà adulto, di dare lui stesso delle risposte ad una generazione più giovane

C’è lo spregiudicato o malvagio, che pone la domanda in questo modo: «Che cosa significa questo rito per voi?» E il commento rabbinico sottolinea questo ‘per voi’, e quindi non più ‘per lui’, che si è già tirato fuori dalla comunità. Tuttavia ha il diritto di essere presente, perché il dono della libertà vale anche per lui.

Ci sono poi il semplice e l’inesperto, che sono coloro che hanno bisogno di essere accompagnati. Soprattutto l’inesperto è colui che non sa porre domande. Allora sempre il testo liturgico dice, rivolto ai genitori: «Vostro figlio non sa porre domande, mettetelo nelle condizioni di farle, o fatele voi per lui». Come dire: non giudicatelo, ma sappiate che è vostro compito metterlo nelle condizioni per cui possa partecipare attivamente al rito. Capite bene perché è importante la dimensione familiare: queste cose si possono fare appunto in un gruppo familiare e non certo in un’assemblea di duecento persone.

Tutto questo avviene in una struttura tripartita.

Il primo momento: le domande del più piccolo, con il racconto commentato dell’esodo; i cibi rituali (azzime, erbe amare, charoset e uovo sodo) e le prime due coppe di vino, quelle che corrispondono alle azioni di Dio: «ti farò uscire e ti libererò». Qui c’è l’annuncio dell’essere usciti di nuovo con Mosè dall’Egitto.

Secondo momento. Usciti dall’Egitto bisogna festeggiare, ed ecco allora la cena conviviale; si tratta di una cena vera e propria, dall’antipasto al dolce, con due accorgimenti: le regole alimentari ebraiche solite e la mancanza di lievito. C’è quindi tutta una cucina per la festa di Pasqua, peraltro molto buona e diversificata per zone geografiche, in cui si cucina senza lievito; c’è tutta una tradizione di dolci che vi assicuro squisiti. Tuttavia non è che durante la cena il rito si interrompa, poiché anche questo è rito, anche se si ride, si scherza, si conversa, perché esprimere la gioia della liberazione è anche poterlo fare attraverso un segno di convivialità. Ecco allora Gesù che ai banchetti compiva i gesti più importanti, perché anche il mangiare insieme è rito.

Terzo momento. La benedizione del pasto – che è la benedizione che l’ebreo religioso compie quotidianamente, ma qui in forma più solenne – implica il canto dell’Hallel, che è l’insieme di tutti i salmi di alleluia. In questa parte di benedizione si bevono anche le due ultime coppe di vino, quelle che ricordano l’essere riscattati e l’essere portati nella libertà, e si termina con dei canti finali e momenti che comprendono dei giochi per i bambini. In questa fase si benedice anche la coppa di vino in memoria di Elia e dei tempi messianici.

Tra l’altro, in questa fase c’è un canto finale che certamente conoscete, ma non sapete forse che viene da qui. È la canzone di Branduardi: Alla fiera dell’est. Il cantautore l’ha presa dalla Pasqua ebraica, cambiando il soggetto. Nella tradizione ebraica il soggetto è un capretto, che il papà è andato alla fiera a comperare per due monete, ma non è mai arrivato sulla tavola perché gli è capitato tutto quello che dice la canzone di Branduardi, dove il capretto è diventato un topolino.

Ma perché è stato pensato come canto per la Pasqua ebraica? L’hanno inventato gli ebrei per raccontare ai bambini perché sul piatto dei cibi rituali l’osso del capretto non c’è più. I grandi lo capiscono, ma i più piccoli hanno bisogno di una storia, e allora ecco la storia del capretto che non è mai arrivato. A Branduardi è piaciuta, ha trasformato il capretto in topolino, e ne è venuto fuori Alla fiera dell’est.

Un particolare: la Pasqua ebraica dura sette giorni. Le prime due sere si compie la cena rituale in maniera molto solenne, le altre cinque invece si fa una cosa molto più contenuta. Tra l’altro nei quartieri degli ebrei molto religiosi, ancora oggi come ai tempi di Gesù, si usa passare una sera in famiglia e una sera nella scuola con il maestro (come appunto Gesù con i suoi discepoli). Ma la cosa interessante è che il canto dell’Hallel, mentre le prime due sere lo si fa in maniera completa, le altre cinque sere si accorcia, non perché è mezza festa, ma come segno di lutto per gli egiziani periti in mare e in memoria dei primogeniti degli egiziani, morti prima della partenza degli ebrei dall’Egitto. Ciò che si insegna è che se la libertà di un popolo è costata la vita a qualcuno, non si può gioire pienamente. Quindi per evitare che qualcuno pensi di poter rivivere la propria esperienza di libertà sulla pelle di qualcun altro (tipo mors tua, vita mea), la tradizione rabbinica ha insegnato che bisogna inserire questi segni di lutto per ricordarsi che, in quello che è il mistero di sofferenza nella storia, la libertà del popolo ebraico è costata la vita a qualcun altro. Per questo bisogna essere in lutto.

Ritornando ai tre momenti della festa, noi li ritroviamo nella stessa scansione nella celebrazione eucaristica cristiana, che fa memoria di ciò che Gesù ha compiuto nell’ultima Cena con i suoi.

La prima parte della liturgia cristiana comprende la liturgia della Parola, dove le letture sono mobili, ma nella liturgia eucaristica i racconti di istituzione sono fissi.

Questi sono accompagnati dalla consacrazione del pane e del vino, che non a caso, nella tradizione cattolica, è pane azzimo. Le chiese d’Oriente hanno fatto una scelta diversa, ma tradizionalmente deve essere pane azzimo.

Dopodiché c’è la Cena eucaristica. Anticamente però c’era la cena conviviale; è stato S. Paolo ad invitare le prime comunità cristiane a separare i due momenti, ma per ragioni pastorali, perché dalle testimonianza delle lettere paoline sappiamo che la cena degenerava e l’Apostolo ha deciso di separare le cose. Lo stesso problema ce l’hanno gli ebrei, tant’è vero che la tradizione rabbinica ha inserito una clausola per cui si dice che, mangiato l’ultimo pezzo di azzima nella propria famiglia, non si può più mangiare nulla fino al giorno dopo. Succedeva infatti che molti (giovani soprattutto), finito di celebrare la Pasqua, andavano in casa di amici o parenti, dove magari il rito, iniziato dopo, era ancora in atto. Così, di Pasqua in Pasqua, arrivavano al mattino ubriachi. Perciò il problema pastorale è trasversale; la tradizione rabbinica ha preferito fare questa scelta, mentre Paolo di Tarso ha preferito separare i due momenti.

Nella liturgia eucaristica cristiana, dopo la Cena eucaristica, c’è comunque la benedizione e un canto finale. Nella celebrazione, soprattutto, c’è il richiamo all’attesa messianica. Infatti alle parole del sacerdote: «Mistero della fede», i presenti rispondono: «Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta». Significa che il cristiano è in attesa del ritorno del Messia già venuto. Per molti ebrei oggi, in epoca di dialogo, c’è ormai la convinzione che se il ritorno di Gesù di Nazaret – Messia per i cristiani – dovesse coincidere con l’inizio dei tempi messianici riconoscibili dagli ebrei, per l’ebraismo non farebbe problema. L’ebreo non riconosce la divinità di Gesù, ma non ha difficoltà a vedere in Gesù colui che, con il suo ritorno inaugura i tempi messianici.

Allora la considerazione è questa: perché le chiese cristiane hanno cambiato la lingua, i canti, ma hanno sempre mantenuto questa struttura tripartita, che ritroviamo nelle chiese della Riforma e in quelle orientali? Perché questa è la struttura del memoriale biblico, è la struttura che garantisce un rito dove, facendo e ricordando, si rivive. Potremo cambiare la lingua e il contorno, ma non potremo cambiare gli elementi fondamentali del memoriale perché questa struttura tripartita è quella che, dal punto di vista biblico, garantisce una celebrazione, una liturgia, che permette di vivere e non semplicemente di ricordare. E questa, in ultima analisi, è la ragione per cui Gesù non poteva che consegnare alla Chiesa delle origini il mistero eucaristico nel segno del memoriale e nell’orizzonte della Pasqua ebraica, che sono la garanzia perché il cristiano possa vivere, nel memoriale, la morte e la risurrezione di Gesù.

Noi quindi abbiamo due memoriali con la stessa dinamica, ma con due contenuti diversi. Con questa struttura l’ebreo esce nuovamente dall’Egitto e il cristiano muore e risorge in Cristo. Attenzione però che non sono distanti, perché se non ci fosse stata l’uscita dall’Egitto, non ci sarebbe stato il popolo ebraico e non ci sarebbe stato Gesù che da questo popolo proviene «secondo la carne» (Romani 1,3). Sono perciò due contenuti diversi, ma strettamente connessi. Ecco perché il celebrare la Pasqua ebraica accanto a quella cristiana è un bene per i cristiani. Non è un optional che l’ebraismo mantiene, ma anzi, come ricordano molti documenti post-conciliari, se gli ebrei diventassero tutti cristiani, la Chiesa si impoverirebbe perché, come ricorda S. Paolo, è un’elezione, quindi un dono di Dio che ha la sua logica in un mistero di salvezza che ci precede e ci supera, e che può essere ricongiunto solo in prospettiva escatologica. È questo il motivo per cui i due memoriali devono rimanere vivi fino al realizzarsi dei tempi ultimi che i cristiani aspettano.

Elena Bartolini, docente di giudaismo post-biblico

 

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